2020

Il quattordicesimo degli anniversari è dedicato al ventiseiesimo  anniversario della morte di Massimo Troisi.
La ricorrenza coincide con la riapertura del Museo dopo la quarantena dovuta alla pandemia da covid 19.
Alle 10, nel pieno rispetto delle misure di sicurezza,  molti visitatori hanno visitato il Museo e, in particolare, la sezione dedicata a “Pino Daniele” dove sono custoditi video inediti del grande musicista e del grande attore, da sempre amici fraterni.
Molti gli studenti si sono poi  collegati sul portale multimediale del museo dove - nella sezione “I Grandi protagonisti della Storia” - sono disponibili video, immagini e documenti su Massimo Troisi.
“L'addio 26 anni fa: era il 4 giugno del 1994”, ricorda il presidente Capasso, amico di Massimo Troisi e di Pino Daniele.
Se uno nasce a San Giorgio a Cremano (alle porte di Napoli ma nel cuore di una periferia disastrata, ancora campagna, non ancora città) e cresce in una casa piccola e sovraffollata (cinque fratelli, due genitori, due nonni e cinque nipoti), o si chiama Massimo Troisi o si rassegna all'anonimato fin dall'infanzia.
“Massimo  decise di far onore al suo nome e di combattere contro un destino difficile, acuito fin dalla giovinezza da dolorose febbri reumatiche che produssero lo scompenso cardiaco alla valvola mitralica che gli sarebbe stato fatale ad appena 41 anni” ricorda Capasso.

Il 4 giugno 1994, appena 12 ore dopo la fine del suo film più ambizioso e impegnativo, "Il Postino", Massimo scivolava dal sonno alla morte nella casa di sua sorella Annamaria, a Ostia, dove aveva trovato rifugio dopo le fatiche di un set che non avrebbe dovuto affrontare.
Alla vigilia del "Postino", Troisi era tornato in America dal chirurgo (De Beckey) che già una volta l'aveva operato in gran segreto al cuore agli inizi della carriera. Sapeva di non poter affrontare il doppio sforzo dell'ideazione e dell'interpretazione (nonostante avesse lasciato la regia a Michael Radford per arrivare alla fine delle riprese) ma scelse di non risparmiarsi per avere l'opportunità di Philippe Noiret nel ruolo del poeta Neruda. Era rassegnato ad andare incontro al suo destino, del resto giocava a nascondino con la morte da sempre e spesso ci aveva fatto dell'ironia tratteggiando personaggi che scompaiono prematuramente ("no, grazie il caffè mi rende nervoso" e perfino intitolando il suo film Tv "Morto Troisi...viva Troisi" (1982). Nato il 19 febbraio del 1953 da un macchinista ferroviere e da una casalinga, il "Pulcinella senza maschera" che il pubblico avrebbe amato fin dall'esordio con "Ricomincio da tre" (1981), si era formato sulle tavole del palcoscenico, istintivo erede di Eduardo e di una napoletanita' irridente e dolente che avrebbe traghettato in un diverso sentire, quella della "nuova Napoli" di Pino Daniele e di Roberto De Simone. Col gruppo "I Saraceni" e poi con gli inossidabili amici de "La Smorfia" (Lello Arena ed Enzo Decaro) uscì presto dai confini vernacolari del successo paesano per portare la sua lingua (un napoletano vivacissimo e torrenziale, sincopato e colorito, "l'unica lingua che so parlare, a dire il vero") sulle reti televisive nazionali e poi al cinema. Com'era accaduto a Eduardo e a Totò, quella parlata divenne comprensibile a tutti oltre le parole, sinonimo di un sentire universale in cui la maschera diventava volto e il personaggio un paradigma universale.
Il successo fu inatteso, clamoroso, immediato. Erano gli albori di quegli anni '80 che portavano alla ribalta insieme a lui la generazione dei Moretti e dei Benigni, ma fu proprio col toscanaccio Roberto che Troisi trovò un'empatia istintiva, festeggiata dal pubblico col clamoroso successo di "Non ci resta che piangere" (1984) in cui il suo surreale "grammelot" faceva da efficace contrappunto alla paradossale cornice storica di un esilarante viaggio nel tempo fino alla Firenze medicea.
Grazie Massimo!